Ripensare la globalizzazione

Pubblicato il da Daniele A. Esposito

Ripensare la globalizzazione

Ormai è chiaro, non possiamo più andare avanti così. E’ tempo di mettere da parte le risposte semplici a problemi complessi, non servono a niente. Se, da un lato, la politica internazionale ci offre slogan che fanno sempre più breccia in bocca all’uomo forte di turno, le comunità, dall’altro, necessitano di lucidità di pensiero, pianificazione attenta, coscienziosità nell’utilizzo delle risorse.

Il Fondo Monetario Internazionale stima che, nel 2020, il PIL globale si ridurrà del 3%. Quello che non stima è quanto si inaspriranno le disuguaglianze sociali per effetto della pandemia e delle conseguenti crisi sanitarie ed economiche.
Ovunque si prospettano tempi particolarmente duri per coloro che, versando in ristrettezze economiche, dipendono da indennizzi ed ammortizzatori sociali. Per non parlare poi dei paesi in cui non c’è una copertura sanitaria generalizzata. In quanto alla retorica, apparentemente condivisibile, del virus “democratico” che colpisce tutti, indistintamente da etnia e censo, precisiamo che il virus sarà anche democratico, ma le nostre risposte al suo attacco rispondono più alle logiche plutocratiche: in altre parole, i meno abbienti resteranno sempre più vulnerabili.


In riferimento agli USA (il paese ad oggi più duramente colpito al mondo sia per numero di contagi che di vittime), Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia, è tra i critici più duri della gestione emergenziale americana e, in particolare, dell’amministrazione Trump. Mai come in questo frangente cooperazione internazionale e forte partecipazione dello stato nel supporto attivo ai cittadini sono essenziali. Ma, secondo l’economista americano, il governo USA, da diverso tempo, sta remando in tutt’altra direzione. “La diffusione delle malattie - sostiene Stiglitz sulle colonne di Internazionale - è uno degli effetti collaterali della globalizzazione. Quando emergono crisi transnazionali, serve una risposta congiunta, come nel caso dell’emergenza climatica”.

Trovo interessante questo parallelismo tra pandemia e cambiamento climatico. Entrambi sono problemi globali esacerbati dalle politiche neoliberiste a cui il capitalismo ci ha abituati: produrre e consumare, detto in due parole. Un ciclo, di cui pochi godono i benefici, che lascia in disparte giustizia sociale e sostenibilità, creando società sempre più diseguali e indifferenti a inquinamento e depauperamento delle risorse. Per non parlare dei nazionalismi sempre pronti ad accantonare i grattacapi puntando il dito contro l’altro, generando fratture a livello di comunità e privilegiando politiche miopi a scarsissima gittata in luogo di piani di sviluppo coerenti con il quadro sopra esposto. 

Se il cambiamento climatico non ci fa paura, poiché la punizione che ci prospetta sbiadisce in un imprecisato futuro che non riusciamo a mettere a fuoco, il virus non ci ha lasciati indifferenti: le sue conseguenze sono tangibili qui ed ora. Questo spauracchio può tornaci utile. Soltanto ora che siamo davvero terrorizzati e in ogni dove temiamo concretamente per il nostro futuro a brevissimo termine, possiamo prendere seriamente in considerazione un cambiamento di paradigma.
E’ tra queste crepe del sistema che intellettuali ed ideologi dovrebbero insinuarsi per dar vita ad un movimento sociale che, coinvolgendo tutti i livelli, miri, con coerenza di pensiero ed azione, ad una profonda ristrutturazione della società globale. Questo ci consentirebbe di risalire nuovamente la china ed è ciò che vivamente mi auspico.

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