Armi, propaganda e pandemie. Cronache di un mondo liquido

Pubblicato il da Daniele A. Esposito

Armi, propaganda e pandemie. Cronache di un mondo liquido

Il mondo sta diventando sempre più inospitale e ci fa paura. Non penso soltanto alla pandemia e all’ansia trasmessaci dall’infodemia - neologismo, quest’ultimo, molto in voga di questi tempi, che la Treccani definisce con la “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili” - che pure ci preoccupano oltremodo per le ricadute dirette sul singolo e sulla collettività. Penso, soprattutto, agli insegnamenti di Zygmunt Bauman (1925 - 2017), alla sua postmodernità liquida: un mondo di consumo bulimico in cui regna l’incertezza presente e futura. L’inquietudine della precarietà, oltre ad ammansirci e renderci governabili, si riversa, secondo il sociologo e filosofo polacco, anche sui legami interpersonali, sempre più fragili e superficiali, come diffusamente argomentato in Amore liquido (Laterza, 2006).

Nessuna minaccia è così temibile e nessuna catastrofe colpisce tanto duramente come quelle ritenute altamente improbabili”, scrive sempre Bauman in Paura liquida (Laterza, 2006). Sembra che si stia riferendo al nostro immediato presente. Anche se, leggendo il post su Spillover, il libro di David Quammen, avrete intuito che, come minaccia, le epidemie non sono poi così improbabili. Ma diciamoci la verità: chi tra noi, non addetti, è stato mai sfiorato dall’idea che le nazioni dell’intero pianeta potessero arrestare all’unisono la loro corsa al prodotto interno lordo? 
E’ innegabile che, mettendo da parte le questioni di probabilità, in termini di percezione diffusa, tutto a un tratto, ci scopriamo assai più vulnerabili e timorosi di quanto già non fossimo. Eppure, al di fuori della nostra campana di vetro, di questi tempi, le catastrofi naturali e i disordini sociali sono all’ordine del giorno. Sarà anche per questo che, negli USA, con l’emergenza sanitaria un fiume di americani si è riversato a comprare armi. Non è, ovviamente, il virus che si potrebbe prendere a pistolettate, ma i nostri simili. Si tratta di una nuova declinazione della paura dell’esclusione: l’esclusione dall’accesso alle risorse, in questo caso. Nulla di nuovo sia per il panorama statunitense che per il nostro sovraffollato pianeta.

Ricordate l’uragano Katrina? Esatto, proprio quello che si abbatté nel 2005 a New Orleans, in Lousiana, provocando oltre 100 miliardi di dollari di danni, un paio di migliaia di vittime e sfollati in numero assai maggiore. In quell’occasione a New Orleans ci fu un disastro naturale, se così ancora possiamo riferirci ai danni provocati da manifestazioni meteorologiche eccezionali, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico, che si abbattono su un suolo instabile e già seriamente compromesso dall’attività antropica. La comunità, probabilmente anche a causa degli scarsi, inefficienti e tardanti sostegni da parte di protezione civile e Guardia Nazionale, fu squarciata da aspri disordini sociali, che videro il loro momento catartico nelle insurrezioni, con tanto di conflitti a fuoco, contro gli agenti di polizia, autorizzati a sparare a vista sui sospettati di sciacallaggio. La ricerca di cibo e acqua in quel frangente, ricordiamolo, poteva trasformare, agli occhi delle autorità, il disperato superstite in sciacallo. Ed è qui che Bauman ci rammenta quanto le catastrofi naturali non siano imparziali né democratiche: le disuguaglianze accentuano clamorosamente il destino delle vittime. Così fu per il disastro di Katrina il cui bersaglio principale furono i neri dei quartieri poveri. Così, probabilmente, è e sarà per coloro i quali oggi sono colpiti dal nuovo coronavirus. Alice Walker, scrittrice afroamericana e Premio Pulitzer per Il colore viola, ricorda su la lettura del 26 aprile, un vecchio detto della sua comunità: “quando l’America bianca prende il raffreddore, l’America nera muore di polmonite”.

La verità è che, oggi, neanche le democrazie riescono a gestire queste sfide complesse, poiché la classe dirigente appare sempre meno capace di pianificare il futuro intervenendo con progetti i cui benefici si manifesteranno a lungo andare: il beneplacito degli elettori hic et nunc conta più di qualsiasi cosa. Tutto questo è esposto molto chiaramente da Gustavo Zagrebelsky nel botta e risposta con Paolo Flores d’Arcais dell’ultimo numero di MicroMega (03/2020). “Se la democrazia segue il consenso quotidiano, si spiegano i ritardi, l’incapacità di prevedere le crisi, la cecità rispetto a pericoli e prospettive a medio-lungo termine. [...] La capacità di guardare in prospettiva si scontra, in determinate situazioni, e questa è una di quelle, con l’esigenza di continuare a fare propaganda, una propaganda a caccia di un consenso immediato. [...] La mentalità del consenso immediato ha pervaso tutto.” 

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