Emmanuel Carrère, nel regno della non-fiction
Ho letto il mio primo Carrère, e sono in estasi.
Vi confesso che, eccezion fatta per la saggistica, faccio sempre molta fatica ad approcciarmi ad un autore contemporaneo poiché le aspettative sono generalmente disattese. Non vi nascondo, inoltre, che, anche dinnanzi ad una buona qualità di scrittura, mi pare sempre più difficile non imbattersi nella vacuità dei contenuti (ogni riferimento è puramente casuale).
In questo panorama a tinte fosche, penso di aver scovato uno scrittore di talento, che, stranamente, ha qualcosa da dire. Questo è (assieme al mio narcisistico bisogno di esprimermi, naturalmente) il motivo per cui scrivo.
Vite che non sono la mia, edito da Adelphi, è stato il mio primo incontro con lo scrittore francese. Prima di cominciare questa lettura, di Emmanuel Carrère (1957) sapevo poco o nulla. Conoscevo vagamente il suo volto e in libreria mi capitava sovente di soffermarmi su qualche suo titolo (ne ho anche acquistati un paio, senza averli mai letti.)
Vite che non sono la mia ha, sin da subito, dato slancio alla mia curiosità. Noi tutti, infatti, ci troviamo spesse volte ad immedesimarci con gli altri, a ragionare sulle vite altrui, su cosa ci piacerebbe essere e cosa no, sugli esempi da prendere a modello e quelli da cui discostarci il più possibile. Considerazioni estemporanee di questo genere sono scaturite al momento della messa a fuoco della copertina del libro. Mi sono domandato, senza motivo, quali fossero i modelli di vita di Carrère, quali le sue nemesi e se in questo libro si fosse spinto a condividerli con i suoi lettori o meno. Sull’onda di questi interrogativi, l’ho scelto.
Mi entusiasma sapere come la pensano le persone che stimo. Tale interesse è direttamente proporzionale alla considerazione che di quella persona risiede in me: più è alta e più vorrei insinuarmi nei pensieri di quel tale, sapere ad esempio quali siano i suoi scrittori preferiti, conoscere per quale partito abbia votato alle ultime elezioni e cosa pensi dei fatti del mondo. E’ qualcosa di molto intimo che va oltre il pettegolezzo, è un’attività che mi aiuta a generare nuove consapevolezze, quando mi imbatto in pareri ragionevoli ma in collisione con i miei, o a rinsaldarne di vecchie, quando colgo nuovi spunti per continuare a pensarla come già la penso. Credo che questa condotta conferisca più coerenza e compattezza al pensiero di ognuno di noi.
Tornando al libro di Carrère che ho citato, esso si impernia su due tragedie che toccano lo scrittore molto da vicino. Entrambe hanno lo stesso nome di donna: Juliette.
La prima sciagura ha per luogo lo Sri Lanka, ma va ben al di là dell’isola indiana. E’ un evento di cronaca, una calamità che investe tutto il sud-est asiatico e s’impadronisce di telegiornali, radio e quotidiani per settimane. Siamo nel 2004, Carrère è in vacanza con la famiglia proprio nei giorni in cui il famigerato tsunami flagella il sud-est asiatico. La famiglia rimane miracolosamente incolume abbarbicata nel confortevole residence per occidentali in cui si trova a soggiornare, ma tutt’attorno è lo strazio più totale: i villaggi costieri di pescatori sono spazzati via dall’“onda”, come la chiama Carrère riportando il fenomeno eccezionale ad una dimensione terrena, ed i cadaveri si ammassano negli ospedali dove si fa fatica ad identificarli. C’è un’altra famiglia francese nel residence, ma per loro la storia non ha lieto fine: la piccola Juliette è morta. Carrère vive in prima persona quei momenti drammatici e, in quella circostanza apocalittica, si fa testimone del dolore più grande che ci sia: la perdita di un figlio.
Benché la seconda tragedia sia decisamente meno esotica e molto più raccolta, le parole di Carrère scuotono il lettore come spari nella notte. Siamo in un anonimo paesino francese di periferia e le ripercussioni della vicenda si propagano soltanto all’interno di una famiglia borghese. Il lutto, il trait d’union tra i due eventi, colpisce un’altra Juliette. Questa volta è la sorella di Hélène, la compagna di Emmanuel Carrère. In quest’occasione il cancro preannuncia l’entrata in scena del Tristo Mietitore nerovestito. Juliette è una persona retta, amabile e di una bontà ineffabile. E’ anche giudice e amministra la giustizia con un certo riguardo per i deboli e gli scapestrati. Niente di tutto questo è sufficiente a sottrarla al suo destino di malata terminale.
Carrère è chiamato a mettere insieme questi drammi familiari, a raccoglierne i cocci, e, muovendosi nel regno a lui più consono, quello della non-fiction, lo fa dipingendoci un affresco di personaggi talmente vivido che non può lasciare indifferenti.