Le piante ci salveranno. (E salveranno anche Bolsonaro.)
Essere consapevoli del disastro che i nostri consumi stanno creando dovrebbe renderci tutti più attenti ai nostri comportamenti individuali, ma anche arrabbiati verso un modello di sviluppo che, per premiare pochissimi, distrugge la nostra casa comune.
Dopo Notre-Dame, tocca all’Amazzonia. Da settimane il mondo intero sente il crepitio del fuoco che, inesorabile, devasta il polmone verde del nostro pianeta; l’unico, per quanto ne sappiamo, in cui la vita, nelle sue infinite forme, si è manifestata. Ma c’è anche chi non vuol sentire, come sempre.
A differenza della cattedrale parigina, la foresta amazzonica non sta suscitando lo stesso interventismo. Qualche slogan politico si è levato in aria da più direzioni, certo, ma quelle parole, come fiocchi di neve che non attecchiscono al suolo, immediatamente si dissolvono nell’etere.
Siamo affetti da plant blindness (per approfondire vedi anche questa pubblicazione). Siamo letteralmente “ciechi” alle piante. Ci interfacciamo costantemente con milioni di bit di informazione proveniente da tutto ciò che ci circonda. Il nostro cervello, però, processa soltanto poche decine di questi bit, traducendoli in stimoli concreti per l’individuo, tutto il resto diviene parte imprecisata dello sfondo in cui ci muoviamo e in cui siamo coscienti.
Questo processo va avanti da milioni di anni: ci siamo evoluti per percepire, sempre più velocemente, stimoli utili per sfuggire e/o affrontare situazioni potenzialmente critiche. Vanno fatte delle scelte. E le piante, ahinoi, sono rimaste nel verde dello sfondo.
Siamo bravissimi, d’altro canto, a riconoscere gli animali. Un po’ perché più simili a noi, un po’ perché dotati di movimento, ma probabilmente anche perché, rappresentando potenzialmente un pericolo, riconoscerli nel nostro ambiente ha costituito per ogni generazione un vantaggio adattativo. Questo è, tra le altre cose, uno dei motivi per cui i progetti di conservazione della fauna ottengono puntualmente più fondi rispetto a quelli sulla flora. Una particolare empatia ci sostiene nella (sacrosanta!) protezione degli animali sempre più a rischio. Altrettanto non si può dire per le piante, che, addirittura, costituiscono oltre l’80% della biomassa terrestre.
Questa sproporzione nella considerazione che abbiamo per le une e per gli altri non rappresenterebbe, di per sé, un problema, se non fosse che complesse relazioni ecologiche tra specie animali, vegetali, substrato fisico e atmosfera terrestre guidano, da miliardi di anni, le dinamiche della vita sul nostro pianeta. Questo intreccio è talmente incredibile che lo scienziato britannico James Lovelock (1919), sul finire degli anni ’70, introdusse la cosiddetta ipotesi Gaia, il pianeta che vive. L’assunto è che l’intero pianeta contribuisca con l’azione di concerto tra tutti i suoi componenti organici e non ad autoregolarsi per mantenere in essere le condizioni idonee alla vita nelle sue varie forme.
Ho appreso molte di queste cose dalla recente lettura de La nazione delle piante (Laterza, 2019) di Stefano Mancuso (1965) e da qualche articolo che trovate citato nel testo. In questo piccolo libro, Mancuso, che è un neurobiologo vegetale, offre tantissimi spunti per riflettere sulla questione, facendo tornare per un attimo il lettore nell’insignificante 0,01% di biomassa in cui l’umanità, tutta, rientra. Siamo insignificanti e al contempo non lo siamo. Stiamo remando contro il pianeta che vive e il gioco non può durare a lungo.
Ma come possiamo renderci conto dell’utilità delle piante se neanche le percepiamo distintamente nell’ambiente circostante? La risposta non può prescindere dalla cultura. Ancora una volta, l’uomo è in grado, grazie a questo prodotto dell’intelletto, di superare limiti e vincoli biologici. Tutti possiamo fare qualcosa: studiamo, informiamoci e sensibilizziamo il prossimo sulle tematiche ecologiche ed ambientali, perché il problema è di tutti.